Paul Renner
QUO VADIS DOMINE?
2003
Bressanone
Ho
conosciuto Orlando Gasperini nel corso di una manifestazione a Borgo
Valsugana nel giugno 2003 e sono stato colpito dalle sue riflessioni,
innamorandomi subito delle sue opere. Sono un prete e – salvo
poche eccezioni – la mia ricerca di un’arte contemporanea che
potesse definirsi “sacra” è andata per lo più frustrata.
Orlando ha portato invece una sferzata di speranza. Non che le sue
opere siano rassicuranti e “belle” nel senso oleografico del
termine. Sono difficili, a volte dure, ma si confrontano - e ci
confrontano! - con l’immagine più vera di Dio, che non è quella
fornitaci dai filosofi (come spiegava già Pascal) bensì quella più
tormentata ma autentica che emerge dalla Bibbia. Il Dio dei filosofi
è tutto preciso, regolare, prevedibile, efficiente. Il Dio biblico
è drammaticamente vivo e passionale, misterioso ma al tempo stesso
tutto impegnato nella difficile realizzazione dell’alleanza con
l’uomo. E’il Dio com-promesso nella storia della terra, che
rivolge all’uomo una continua pro-vocazione ad essere pienamente
uomo:
solo così può infatti arrivare a congiungersi con Dio, ad essere
immerso nel mistero della vita divina. Il processo della
umanizzazione viene allora a coincidere con il processo della
divinizzazione, di cui parla soprattutto la teologia dell’Oriente
cristiano.
Ebbene, dicevo, le opere di Orlando Gasperini riescono efficacemente a presentare questo Dio che “ama la terra”, che ama le sue creature nella loro autenticità. Ecco allora il ricorrere della nudità, che non vuol essere volgarità ma autenticità e nobiltà. I corpi umani, raffigurati nella loro bellezza più struggente, si fanno icona del Dio invisibile di cui sono “immagine e somiglianza”. Ne risulta che chi deturpa, rifiuta o fa soffrire il corpo – oltre che l’anima – commette una bestemmia, viola l’immagine divina che è insita nella natura umana. Commentando il passo del Nuovo Testamento in cui Gesù esprime davanti all’immagine dell’imperatore effigiata sulla moneta il noto “date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio!” Sant’Agostino sostiene che “l’uomo è la moneta di Cristo”, ovvero la creatura su cui è impressa la sua immagine. E questa deve essere accolta, tutelata e promossa in tutte le sue dimensioni.
Insomma il Nostro si sforza di declinare vari registri in cui Dio si rapporta con l’uomo e l’uomo con Dio e con il suo prossimo, che pur sempre rappresenta una “immagine e somiglianza” dell’Altissimo. E la categoria che meglio risponde al tentativo di descrivere tale terzetto d’amore – io/noi/Lui – è innegabilmente quella del Mistero.
Sempre più la teologia contemporanea recupera un approccio apofantico a Dio, sostenendo che di Lui si deve piuttosto tacere e contemplare che non parlare in maniera eccessivamente antropomorfa e verbosa. Il Dio che viene colto come il Mistero santo che tutto avvolge e tutto sostiene, il Dio “in cui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (Atti 17,28) sfugge alla comprensione (nel senso di com-prehendere, afferrare, delimitare) ed esige invece di farsi capaci di contemplazione. E proprio il silenzio della contemplazione – vorrei però anche definirla così – “adorante” è quello a cui ci introducono i quadri di Orlando. Quadri che possono dunque essere letti a due livelli: quello più immediato e laico di una denuncia di alcune storture del nostro convivere ma soprattutto quello religioso e biblico, di una declinazione del progetto di Dio nei confronti del mondo degli uomini. Le citazioni bibliche non sono dunque un pretesto o una vaga ispirazione, ma il fondamento, la trama e il senso di questi lavori, che senza un ascolto del testo biblico non vengono a rivelare tutta la profondità del loro messaggio.
Veniamo però in specifico alla mostra cui questo catalogo si riferisce.
La domanda che dona il titolo a questa esposizione deriva anch’essa da un passo di sapore biblico, appartenente alla tradizione orale della Chiesa cristiana. Si tratta della domanda che secondo la tradizione Pietro, fuggiasco da Roma al tempo delle persecuzioni neroniane, avrebbe rivolto, stupito, a Gesù che vedeva marciare deciso vero l’Urbe da cui lui scappava. “Quo vadis, Domine?”, “Dove vai, Signore?”. La risposta è lapidaria: “Vado a Roma a morire al posto tuo”. Pietro gira sui suoi passi e decide di assumersi la propria responsabilità. E qui sta il cuore di tutto il messaggio dei grandi fondatori di religioni e dunque anche di Gesù di Nazareth: l’uomo nasce ricco dei doni che Dio gli fa, affinché egli li sviluppi in pienezza, affinché si assuma cioè le proprie responsabilità verso se stesso, verso gli altri e verso Dio.
E’ chiaro allora, che alla domanda di Pietro risponde una implicita interrogazione da parte del Nazareno che potremmo rendere – per amore di assonanza – con la formula: “Quo vadis, homine?”: “Uomo, dove stai andando?” Così che ciò che ci inquieta non è tanto il silenzio di Dio – che usa esprimersi sommessamente ed in enigmate – quanto il silenzio, il mutismo, la non capacità o non volontà di comunicare da parte dell’uomo. Mi scriveva nel luglio 2003 Orlando: “…è il silenzio dell’uomo di fronte al grido di aiuto e di dolore dei suoi simili che maschera la voce di Dio ai nostri cuori, mi domando guardando alla sofferenza del mondo cosa merito io rispetto ad altri, perché a me è data la possibilità di una salvezza che altri non hanno? Per questo non mi sento un salvato se non assieme ad un’umanità intera e come parte di una sola “categoria”…”
Nell’interrogativo di Pietro a Gesù viene riproposta in maniera speculare la prima domanda in assoluto che Dio fece all’uomo: “Adamo, dove sei?” Secondo Martin Buber nel suo splendido Il cammino dell’uomo, tale richiesta non nascondeva un intento di ordine geografico da parte dell’Onnisciente quanto di valore spirituale. Dio chiedeva alla più alta delle sue creature: “A che punto ti trovi del tuo percorso spirituale, morale, umano? Dove stai andando? Come ci stai andando?” Solo la presa di coscienza della propria nudità, permette all’uomo di avviare il suo cammino nella storia. Eppure questo cammino paradossalmente nasce da un inganno, da un tradimento della fiducia che Dio ripone nell’uomo, da un essersi nascosto. Adamo non vede Dio, non perché il Signore non si manifesti, ma perché è lui che ha annebbiato in se stesso la “immagine e somiglianza” con Dio ed ha dunque portato al “nascondimento di Dio”, all’offuscamento del suo volto. Solo quando smette di chiedersi “dov’è Dio?” e comincia ad interrogarsi “dove sto io?”, l’uomo può prendere la vita nelle proprie mani e scoprire la propria vocazione di vivere al cospetto di Dio ed, anzi, in comunione con Dio.
Una seconda pesante domanda di Dio vuole verificare il percorso dell’uomo. Essa risuona dopo che Caino ha ucciso il fratello Abele e si sente interrogare circa la propria assunzione di responsabilità: “Dov’è tuo fratello?” Caino gioca la carte della cecità, dell’indifferenza, della non-competenza-del-suo-ufficio: “Sono forse io il custode di mio fratello?” La domanda non priva Abele ma proprio Caino di dignità e di umanità. Eppure Dio non smentisce la propria fedeltà ed amore all’uomo e – pur punendolo - ammonisce: “Nessuno tocchi Caino!”.
Traspare qui il mistero alto e luminoso di un Dio che è nella sua essenza Amore e – proprio per tale motivo – responsabilità. L’amore vero non è dolce e romantico ma forte come la morte, fedele, gratuito, geloso (nel senso di appassionato e interessato). E’ questo l’Amore sacro, mentre quello profano appetisce, aggredisce e consuma. L’Amore vero è Mistero, ed appunto perciò Dio – che è Amore – è Mistero! E il mistero di Dio riluce ancor più forte quando viene a confrontarsi con le tenebre che l’uomo riesce a portare nel mondo, credendosi invece un potente Lucifero. Per dirla in altri termini il Mysterium iniquitatis crea quel pozzo profondo e buio da cui diviene più necessario e – a volte - più facile anelare al cielo pieno di stelle, ovvero cogliere il mysterium pulchritudinis. “Quale bellezza salverà il mondo?” si chiedeva Dostojevsky, ripreso dal cardinal Martini in una sua nota lettera pastorale. Non certo la bellezza dell’estetismo, della superficialità, del culto dell’apparenza e dell’immagine, ma la bellezza della verità che non sfugge alla dimensione della nudità, del sacrificio, della sofferenza, tratti questi fortemente presenti nella fatica pittorica di Orlando.
Noi viviamo però in un clima culturale che cerca in tutti i modi di evitare la sofferenza: alcolismo, cattiva TV, droghe, videogiochi, anestesia, cure palliative, eutanasia. Eppure quest’esperienza estrema del soffrire non può essere rimossa e si affaccia qua e là nell’esistenza di ciascuno di noi. Bisogna guardarla in faccia, bisogna accettarla, bisogna scoprirne la dimensione umanizzante e solidarizzante. Essa viene assunta nella dimensione del sacro, nel momento stesso in cui Gesù, il Figlio stesso, accetta di farsene carico. Ecco perché numerose opere di Orlando Gasperini ripercorrono il tema dell’altare, non visto come l’elogio della religione ma come uno sguardo lanciato sul mistero di sofferenza che l’Agnello immolato – Cristo – ha voluto fare proprio per condividere, spogliandosi degli attributi divini, in tutto la nostra natura umana (cfr. Filippesi 2,7).
Il trittico altari ci presenta proprio questa nostalgia di infinito che è propria dell’essere uomo e tutte le immagini di tale serie alludono alla dimensione dell’amore:la vita nascente ma minacciata, l’ostia offerta per la salvezza del mondo, il rapporto d’unione tra uomo e donna. Gli altari non sono i luoghi della religione, ove si celebrano riti ripetitivi e vuoti, ma sono le mense della vita, dove pulsa e fluisce il soffio divino nell’esistenza degli uomini e dove questa grida le sue paure e speranze all’Agnello fatto carne, o meglio, fatto uomo. La volgarità – lo capiamo in queste come in tutte le altre opere di Orlando Gasperini - non sta nella nudità ma nella rapina, nella disumanità, nelle belle camicie che nascondono i quattro cavalieri dell’Apocalisse, i (presunti) giustizieri del mondo e della storia. “Tutto infatti è nudo…agli occhi di colui al quale dobbiamo rendere conto” (Ebrei 4,13). Gli altari rimandano al Dio presente nei simboli, nei sacramenti, nei testimoni. Il Dio che non parla quasi mai in maniera diretta, ma che invia i suoi angeli, come appunto anche nel trittico Quo vadis? Noi chiediamo all’Agnello “Dove vai”, mentre lui abita un tabernacolo, che in latino significa tenda, in quanto vuol essere – ed è – in cammino con il suo popolo, condividendone gioie e dolori. Non è presente nella forma del Dio possente che potrebbe incuterci terrore, ma nella dimensione della “mitezza ed umiltà” (Matteo 11,29), della non appariscenza, che esige da noi un continuo sforzo di ricerca e di percezione.
Bestemmie: la serie ci presenta immagini sacre ed immagini dissacrate. Calici e reliquari fungono da sfondo ai drammi degli ultimi decenni: la shoah degli ebrei, il martirio dei Balcani, l’epidemia dell’AIDS. E sfociano implacabili nell’ultima imago mundi: un volto di Cristo che rimanda in certo modo alla Sindone e che rappresenta l’identificazione di Dio con il destino dell’uomo. Non per niente Gesù non amava definirsi “Messia” o “Signore” ma piuttosto “Figlio dell’uomo”, ovvero colui che divide la nostra sorte terrena in vista di dischiuderci il nostro destino eterno. Non Dio abita nel mondo (sarebbe una vecchia forma di panteismo) ma il mondo vive in Dio e da lui riceve di nuovo la propria autentica fisionomia, “nonostante le volte che ci siamo ingannati, che siamo stati ingannati e che abbiamo ingannato” (Louis Evely). E’ Dio stesso che opera per ristabilire il suo volto come autentica “imago mundi” e che ci chiede di farci suoi cooperatori in tale impresa.
Tale condivisione mi sembra drammaticamente ed efficacemente espressa nel tondo del Padre nostro, ove le umane miserie, che Gesù ha ben conosciuto, prendono corpo in una lode di Dio – nonostante tutto – e in una richiesta a Dio, affinché trasformi quel coacervo di iniquità che non nasce dalla storia in quanto tale ma dal cuore dell’uomo, che poi riesce a proiettare nella storia quelle che il Papa attuale chiama “strutture di peccato”. E’ un Padre nostro di denuncia quello che abbiamo di fronte, ma è anche una preghiera che parte dalla cruda realtà mondana per aspirare a quel “di più” che sentiamo in qualche modo esserci dovuto o meglio promesso. Ci rendiamo conto, lo sentiamo visceralmente, che quella in cui viviamo non può essere la realtà autentica e definitiva. Riferirsi al Padre “che sta nei cieli” significa aspirare non ad un Paradiso post-terreno, ma ad una condizione di giustizia e di beatitudine che inizia già sulla terra, anche con il nostro “I care”, come ripeteva don Milani.
Maestre in questa direzione sono le grandi virtù teologali, quella Fede, Speranza ed Amore (carità), di cui quasi nessuno parla più, ritenendole figure d’altri tempi, o relative puramente all’ambito religioso (per quel frainteso attributo di “teologali”), mentre sono invece quanto mai necessarie in un contesto in cui – come scriveva nel suo Il ritratto di Dorian Gray il grande Oscar Wilde – “lo spirito muore di fame e di freddo”. Le diafane raffigurazioni delle tre virtù che Orlando Gasperini ci propone, vogliono sommessamente ma decisamente richiamare la nostra attenzione su queste tre sorelle, senza le quali la vita perde luce, sapore, orientamento. Non si tratta di sentimenti che, in quanto tali, possono esserci o meno, che sono ballerini ed instabili, di intensità mutevole ed inaffidabile. Queste virtù sono dette “teologali” perché sono doni e forze che provengono da Dio. Il loro volto resta “nascosto in Dio” e da Lui traggono senso e potenza, esplicandosi nella vita umana come guide di verità che intendono realizzare l’”uomo nuovo” (Efesini 2,15), pacificato da questi tre grandi doni di Dio che si articolano poi nella serie dei carismi che ad ognuno sono attribuiti in varia misura, perché ciascuno concorra secondo le sue possibilità al bene comune. Le virtù che contempliamo intendono affermare che la forza – la virtus, appunto - di cui l’uomo dispone non è mai endogena, perché nessuno si è fatto da sé...tranne alcuni presuntuosi! Questa forza è invece radicata in Dio che è però munifico nei suoi doni ed offre a ciascuno non oro o argento ma questi tesori “che né i ladri possono rubare, né le tarme o la ruggine corrompere” (Matteo 6,19).
Questi doni vigorosi rappresentati dalle virtù li avvertiamo soprattutto quando ci mancano: che cos’è la vita quando appassisce la Speranza, si spegne l’Amore, vacilla la Fede? Come tutti i doni di Dio, anche le Virtù vanno coltivate. Ognuno è responsabile di fare loro spazio nella propria vita, di esercitarle, di seguirle in pienezza e di promuoverle anche negli altri. Guai – ripete molte volte Gesù – a chi è fonte di scandalo e dunque mina la fede, la speranza o l’amore che abitano in altre persone.
Alle tre virtù sembrano opporsi, non numericamente ma qualitativamente, I quattro cavalieri dell’Apocalisse. Dove quelle intendono costruire, questi annunciano invece distruzione ma anche purificazione. E’ questo un tema delicato, che spesso ha portato (pensiamo a Dürer) ad un verismo che voleva incutere sacro timore. Qui invece Orlando Gasperini considera piuttosto la valenza allusiva dei quattro giustizieri finali. Anzitutto tale rappresentazione ci ricorda che la storia termina con un “incasso finale”. La carta VISA, simbolo di distinzione e di potere che campeggia nelle quattro immagini, anticipa però anche il redde rationem: spendi e spandi, ma alla fine devi renderne conto e verrà fatto un bilancio della tua vita. Mi sembra molto raffinata la presentazione delle quattro prerogative dei cavalieri con la positura delle mani e del corpo. Il primo personaggio esprime vittoria, ed è dunque seduto con la mano rilassata e un anello che ne esprime il potere; il secondo toglie la pace e dunque ha una statica precaria e le mani inducono ad movimento, all’inquietudine; il terzo, con la camicia verdastra, raffigura l’apparente quiete di una morte incombente, e perciò la mano viene ritirata e nascosta in tasca; l’ultimo personaggio deve rappresentare una sorta di giustizia violenta e perciò si pone la mano nella cinta, simbolo di potere e di durezza nel castigare. Sono immagini inquietanti, che lasciano trasparire ciò che sta dietro la bella facciata di una società apparentemente educata e regolata, dove però il viso non si mostra più ed è sostituito dalla VISA. L’avere prevale sull’essere e porta ad un convivere gravido di tensioni e di esplosive ingiustizie, che sfoceranno tutte nel grande giudizio. E’ questo un tema centrale dell’arte cristiana, che però ultimamente nessuno si perita di affrontare, tutti preoccupati come siamo di offrire immagini di Madonne piangenti o di Cristi misericordiosi. Eppure la “riserva escatologica”, come la chiama il teologo Johann Baptist Metz, ovvero il giudizio divino che incombe sulla nostra storia, non può essere annullata. Nessun governo, nessun personaggio, nessun popolo può sentirsi il “giusto giudice”, il definitivo arbitro della bontà e della verità. Questo è il compito di Dio e saperlo e vivere di conseguenza significa credere autenticamente in Dio.
L’abbandono al progetto ed alla volontà salvifica di Dio mi sembra efficacemente reso dal trittico S.Giorgio, S.Francesco, Deposizione. S.Giorgio è il combattente che non deve eliminare le passioni (il drago) ma saperle dominare e incanalare per la crescita morale sua e per il bene della società. Cristo è il suo ideale di non-violenza, perché gli insegna a combattere non i nemici che la nostra mente crea, ma il nemico che si annida nel nostro intimo e che è un Io ingombrante ed egotico. S.Francesco nella sua nudità, lasciando i beni terreni ed abbracciando la Croce, ci mostra la ricchezza che nasce dalla sobrietà, dal riuscire a sfuggire al demone del consumismo, per compiere quella scelta radicale per Cristo che fonda in maniera nuova la vita dell’uomo e la sua dignità. La Deposizione infine sembra racchiudere il ciclo pittorico che Orlando ci ha offerto. L’abbandono rilassato del Cristo, la sua mano che ha vinto il peccato (il verme tratto dalla mela), il quadrato magico (Sator arepo) che allude al “tutto è compiuto” ed a quanto gli apostoli riconoscono a Gesù (“ha fatto bene ogni cosa!” [Marco 7,37]): tutti questi elementi richiamano il Mistero dell’uomo-Dio, l’enigma della bellezza del piano del Creatore, che non fugge nemmeno davanti alla morte. E difatti nel suo discorso di Pentecoste Pietro dirà alle folle di Gesù : “questi non fu abbandonato negli inferi, né la sua carne vide la corruzione”.
La carne non è destinata alla corruzione! Forse è proprio questo che Orlando Gasperini vuol dirci con queste sue opere. Il Signore non segue il nostro destino di (apparente) corruzione, ma ci precede ed introduce nella dimensione di una carnalità (cioè di una totalità dell’essere-persona) bella e senza smagliature. Si tratta allora in definitiva di una mostra di immagini a volte inquietanti ma densa di una speranza che invita a guardare attraverso il Crocifisso (uomo o Figlio che egli sia) per vedere anche e soprattutto il Risorto che “attirerà tutti a sé”. “Quo vadis Domine?” era la domanda iniziale. Ora Gesù è il Signore entrato in quella definitività che sarà anche il nostro shabbat, il sabato senza fine del nostro riposo, del nostro abbandono totale in quel Dio che sarà “tutto in tutti”, nel quale “i giusti risplenderanno come il sole” (Matteo 13,43).
Ebbene, dicevo, le opere di Orlando Gasperini riescono efficacemente a presentare questo Dio che “ama la terra”, che ama le sue creature nella loro autenticità. Ecco allora il ricorrere della nudità, che non vuol essere volgarità ma autenticità e nobiltà. I corpi umani, raffigurati nella loro bellezza più struggente, si fanno icona del Dio invisibile di cui sono “immagine e somiglianza”. Ne risulta che chi deturpa, rifiuta o fa soffrire il corpo – oltre che l’anima – commette una bestemmia, viola l’immagine divina che è insita nella natura umana. Commentando il passo del Nuovo Testamento in cui Gesù esprime davanti all’immagine dell’imperatore effigiata sulla moneta il noto “date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio!” Sant’Agostino sostiene che “l’uomo è la moneta di Cristo”, ovvero la creatura su cui è impressa la sua immagine. E questa deve essere accolta, tutelata e promossa in tutte le sue dimensioni.
Insomma il Nostro si sforza di declinare vari registri in cui Dio si rapporta con l’uomo e l’uomo con Dio e con il suo prossimo, che pur sempre rappresenta una “immagine e somiglianza” dell’Altissimo. E la categoria che meglio risponde al tentativo di descrivere tale terzetto d’amore – io/noi/Lui – è innegabilmente quella del Mistero.
Sempre più la teologia contemporanea recupera un approccio apofantico a Dio, sostenendo che di Lui si deve piuttosto tacere e contemplare che non parlare in maniera eccessivamente antropomorfa e verbosa. Il Dio che viene colto come il Mistero santo che tutto avvolge e tutto sostiene, il Dio “in cui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (Atti 17,28) sfugge alla comprensione (nel senso di com-prehendere, afferrare, delimitare) ed esige invece di farsi capaci di contemplazione. E proprio il silenzio della contemplazione – vorrei però anche definirla così – “adorante” è quello a cui ci introducono i quadri di Orlando. Quadri che possono dunque essere letti a due livelli: quello più immediato e laico di una denuncia di alcune storture del nostro convivere ma soprattutto quello religioso e biblico, di una declinazione del progetto di Dio nei confronti del mondo degli uomini. Le citazioni bibliche non sono dunque un pretesto o una vaga ispirazione, ma il fondamento, la trama e il senso di questi lavori, che senza un ascolto del testo biblico non vengono a rivelare tutta la profondità del loro messaggio.
Veniamo però in specifico alla mostra cui questo catalogo si riferisce.
La domanda che dona il titolo a questa esposizione deriva anch’essa da un passo di sapore biblico, appartenente alla tradizione orale della Chiesa cristiana. Si tratta della domanda che secondo la tradizione Pietro, fuggiasco da Roma al tempo delle persecuzioni neroniane, avrebbe rivolto, stupito, a Gesù che vedeva marciare deciso vero l’Urbe da cui lui scappava. “Quo vadis, Domine?”, “Dove vai, Signore?”. La risposta è lapidaria: “Vado a Roma a morire al posto tuo”. Pietro gira sui suoi passi e decide di assumersi la propria responsabilità. E qui sta il cuore di tutto il messaggio dei grandi fondatori di religioni e dunque anche di Gesù di Nazareth: l’uomo nasce ricco dei doni che Dio gli fa, affinché egli li sviluppi in pienezza, affinché si assuma cioè le proprie responsabilità verso se stesso, verso gli altri e verso Dio.
E’ chiaro allora, che alla domanda di Pietro risponde una implicita interrogazione da parte del Nazareno che potremmo rendere – per amore di assonanza – con la formula: “Quo vadis, homine?”: “Uomo, dove stai andando?” Così che ciò che ci inquieta non è tanto il silenzio di Dio – che usa esprimersi sommessamente ed in enigmate – quanto il silenzio, il mutismo, la non capacità o non volontà di comunicare da parte dell’uomo. Mi scriveva nel luglio 2003 Orlando: “…è il silenzio dell’uomo di fronte al grido di aiuto e di dolore dei suoi simili che maschera la voce di Dio ai nostri cuori, mi domando guardando alla sofferenza del mondo cosa merito io rispetto ad altri, perché a me è data la possibilità di una salvezza che altri non hanno? Per questo non mi sento un salvato se non assieme ad un’umanità intera e come parte di una sola “categoria”…”
Nell’interrogativo di Pietro a Gesù viene riproposta in maniera speculare la prima domanda in assoluto che Dio fece all’uomo: “Adamo, dove sei?” Secondo Martin Buber nel suo splendido Il cammino dell’uomo, tale richiesta non nascondeva un intento di ordine geografico da parte dell’Onnisciente quanto di valore spirituale. Dio chiedeva alla più alta delle sue creature: “A che punto ti trovi del tuo percorso spirituale, morale, umano? Dove stai andando? Come ci stai andando?” Solo la presa di coscienza della propria nudità, permette all’uomo di avviare il suo cammino nella storia. Eppure questo cammino paradossalmente nasce da un inganno, da un tradimento della fiducia che Dio ripone nell’uomo, da un essersi nascosto. Adamo non vede Dio, non perché il Signore non si manifesti, ma perché è lui che ha annebbiato in se stesso la “immagine e somiglianza” con Dio ed ha dunque portato al “nascondimento di Dio”, all’offuscamento del suo volto. Solo quando smette di chiedersi “dov’è Dio?” e comincia ad interrogarsi “dove sto io?”, l’uomo può prendere la vita nelle proprie mani e scoprire la propria vocazione di vivere al cospetto di Dio ed, anzi, in comunione con Dio.
Una seconda pesante domanda di Dio vuole verificare il percorso dell’uomo. Essa risuona dopo che Caino ha ucciso il fratello Abele e si sente interrogare circa la propria assunzione di responsabilità: “Dov’è tuo fratello?” Caino gioca la carte della cecità, dell’indifferenza, della non-competenza-del-suo-ufficio: “Sono forse io il custode di mio fratello?” La domanda non priva Abele ma proprio Caino di dignità e di umanità. Eppure Dio non smentisce la propria fedeltà ed amore all’uomo e – pur punendolo - ammonisce: “Nessuno tocchi Caino!”.
Traspare qui il mistero alto e luminoso di un Dio che è nella sua essenza Amore e – proprio per tale motivo – responsabilità. L’amore vero non è dolce e romantico ma forte come la morte, fedele, gratuito, geloso (nel senso di appassionato e interessato). E’ questo l’Amore sacro, mentre quello profano appetisce, aggredisce e consuma. L’Amore vero è Mistero, ed appunto perciò Dio – che è Amore – è Mistero! E il mistero di Dio riluce ancor più forte quando viene a confrontarsi con le tenebre che l’uomo riesce a portare nel mondo, credendosi invece un potente Lucifero. Per dirla in altri termini il Mysterium iniquitatis crea quel pozzo profondo e buio da cui diviene più necessario e – a volte - più facile anelare al cielo pieno di stelle, ovvero cogliere il mysterium pulchritudinis. “Quale bellezza salverà il mondo?” si chiedeva Dostojevsky, ripreso dal cardinal Martini in una sua nota lettera pastorale. Non certo la bellezza dell’estetismo, della superficialità, del culto dell’apparenza e dell’immagine, ma la bellezza della verità che non sfugge alla dimensione della nudità, del sacrificio, della sofferenza, tratti questi fortemente presenti nella fatica pittorica di Orlando.
Noi viviamo però in un clima culturale che cerca in tutti i modi di evitare la sofferenza: alcolismo, cattiva TV, droghe, videogiochi, anestesia, cure palliative, eutanasia. Eppure quest’esperienza estrema del soffrire non può essere rimossa e si affaccia qua e là nell’esistenza di ciascuno di noi. Bisogna guardarla in faccia, bisogna accettarla, bisogna scoprirne la dimensione umanizzante e solidarizzante. Essa viene assunta nella dimensione del sacro, nel momento stesso in cui Gesù, il Figlio stesso, accetta di farsene carico. Ecco perché numerose opere di Orlando Gasperini ripercorrono il tema dell’altare, non visto come l’elogio della religione ma come uno sguardo lanciato sul mistero di sofferenza che l’Agnello immolato – Cristo – ha voluto fare proprio per condividere, spogliandosi degli attributi divini, in tutto la nostra natura umana (cfr. Filippesi 2,7).
Il trittico altari ci presenta proprio questa nostalgia di infinito che è propria dell’essere uomo e tutte le immagini di tale serie alludono alla dimensione dell’amore:la vita nascente ma minacciata, l’ostia offerta per la salvezza del mondo, il rapporto d’unione tra uomo e donna. Gli altari non sono i luoghi della religione, ove si celebrano riti ripetitivi e vuoti, ma sono le mense della vita, dove pulsa e fluisce il soffio divino nell’esistenza degli uomini e dove questa grida le sue paure e speranze all’Agnello fatto carne, o meglio, fatto uomo. La volgarità – lo capiamo in queste come in tutte le altre opere di Orlando Gasperini - non sta nella nudità ma nella rapina, nella disumanità, nelle belle camicie che nascondono i quattro cavalieri dell’Apocalisse, i (presunti) giustizieri del mondo e della storia. “Tutto infatti è nudo…agli occhi di colui al quale dobbiamo rendere conto” (Ebrei 4,13). Gli altari rimandano al Dio presente nei simboli, nei sacramenti, nei testimoni. Il Dio che non parla quasi mai in maniera diretta, ma che invia i suoi angeli, come appunto anche nel trittico Quo vadis? Noi chiediamo all’Agnello “Dove vai”, mentre lui abita un tabernacolo, che in latino significa tenda, in quanto vuol essere – ed è – in cammino con il suo popolo, condividendone gioie e dolori. Non è presente nella forma del Dio possente che potrebbe incuterci terrore, ma nella dimensione della “mitezza ed umiltà” (Matteo 11,29), della non appariscenza, che esige da noi un continuo sforzo di ricerca e di percezione.
Bestemmie: la serie ci presenta immagini sacre ed immagini dissacrate. Calici e reliquari fungono da sfondo ai drammi degli ultimi decenni: la shoah degli ebrei, il martirio dei Balcani, l’epidemia dell’AIDS. E sfociano implacabili nell’ultima imago mundi: un volto di Cristo che rimanda in certo modo alla Sindone e che rappresenta l’identificazione di Dio con il destino dell’uomo. Non per niente Gesù non amava definirsi “Messia” o “Signore” ma piuttosto “Figlio dell’uomo”, ovvero colui che divide la nostra sorte terrena in vista di dischiuderci il nostro destino eterno. Non Dio abita nel mondo (sarebbe una vecchia forma di panteismo) ma il mondo vive in Dio e da lui riceve di nuovo la propria autentica fisionomia, “nonostante le volte che ci siamo ingannati, che siamo stati ingannati e che abbiamo ingannato” (Louis Evely). E’ Dio stesso che opera per ristabilire il suo volto come autentica “imago mundi” e che ci chiede di farci suoi cooperatori in tale impresa.
Tale condivisione mi sembra drammaticamente ed efficacemente espressa nel tondo del Padre nostro, ove le umane miserie, che Gesù ha ben conosciuto, prendono corpo in una lode di Dio – nonostante tutto – e in una richiesta a Dio, affinché trasformi quel coacervo di iniquità che non nasce dalla storia in quanto tale ma dal cuore dell’uomo, che poi riesce a proiettare nella storia quelle che il Papa attuale chiama “strutture di peccato”. E’ un Padre nostro di denuncia quello che abbiamo di fronte, ma è anche una preghiera che parte dalla cruda realtà mondana per aspirare a quel “di più” che sentiamo in qualche modo esserci dovuto o meglio promesso. Ci rendiamo conto, lo sentiamo visceralmente, che quella in cui viviamo non può essere la realtà autentica e definitiva. Riferirsi al Padre “che sta nei cieli” significa aspirare non ad un Paradiso post-terreno, ma ad una condizione di giustizia e di beatitudine che inizia già sulla terra, anche con il nostro “I care”, come ripeteva don Milani.
Maestre in questa direzione sono le grandi virtù teologali, quella Fede, Speranza ed Amore (carità), di cui quasi nessuno parla più, ritenendole figure d’altri tempi, o relative puramente all’ambito religioso (per quel frainteso attributo di “teologali”), mentre sono invece quanto mai necessarie in un contesto in cui – come scriveva nel suo Il ritratto di Dorian Gray il grande Oscar Wilde – “lo spirito muore di fame e di freddo”. Le diafane raffigurazioni delle tre virtù che Orlando Gasperini ci propone, vogliono sommessamente ma decisamente richiamare la nostra attenzione su queste tre sorelle, senza le quali la vita perde luce, sapore, orientamento. Non si tratta di sentimenti che, in quanto tali, possono esserci o meno, che sono ballerini ed instabili, di intensità mutevole ed inaffidabile. Queste virtù sono dette “teologali” perché sono doni e forze che provengono da Dio. Il loro volto resta “nascosto in Dio” e da Lui traggono senso e potenza, esplicandosi nella vita umana come guide di verità che intendono realizzare l’”uomo nuovo” (Efesini 2,15), pacificato da questi tre grandi doni di Dio che si articolano poi nella serie dei carismi che ad ognuno sono attribuiti in varia misura, perché ciascuno concorra secondo le sue possibilità al bene comune. Le virtù che contempliamo intendono affermare che la forza – la virtus, appunto - di cui l’uomo dispone non è mai endogena, perché nessuno si è fatto da sé...tranne alcuni presuntuosi! Questa forza è invece radicata in Dio che è però munifico nei suoi doni ed offre a ciascuno non oro o argento ma questi tesori “che né i ladri possono rubare, né le tarme o la ruggine corrompere” (Matteo 6,19).
Questi doni vigorosi rappresentati dalle virtù li avvertiamo soprattutto quando ci mancano: che cos’è la vita quando appassisce la Speranza, si spegne l’Amore, vacilla la Fede? Come tutti i doni di Dio, anche le Virtù vanno coltivate. Ognuno è responsabile di fare loro spazio nella propria vita, di esercitarle, di seguirle in pienezza e di promuoverle anche negli altri. Guai – ripete molte volte Gesù – a chi è fonte di scandalo e dunque mina la fede, la speranza o l’amore che abitano in altre persone.
Alle tre virtù sembrano opporsi, non numericamente ma qualitativamente, I quattro cavalieri dell’Apocalisse. Dove quelle intendono costruire, questi annunciano invece distruzione ma anche purificazione. E’ questo un tema delicato, che spesso ha portato (pensiamo a Dürer) ad un verismo che voleva incutere sacro timore. Qui invece Orlando Gasperini considera piuttosto la valenza allusiva dei quattro giustizieri finali. Anzitutto tale rappresentazione ci ricorda che la storia termina con un “incasso finale”. La carta VISA, simbolo di distinzione e di potere che campeggia nelle quattro immagini, anticipa però anche il redde rationem: spendi e spandi, ma alla fine devi renderne conto e verrà fatto un bilancio della tua vita. Mi sembra molto raffinata la presentazione delle quattro prerogative dei cavalieri con la positura delle mani e del corpo. Il primo personaggio esprime vittoria, ed è dunque seduto con la mano rilassata e un anello che ne esprime il potere; il secondo toglie la pace e dunque ha una statica precaria e le mani inducono ad movimento, all’inquietudine; il terzo, con la camicia verdastra, raffigura l’apparente quiete di una morte incombente, e perciò la mano viene ritirata e nascosta in tasca; l’ultimo personaggio deve rappresentare una sorta di giustizia violenta e perciò si pone la mano nella cinta, simbolo di potere e di durezza nel castigare. Sono immagini inquietanti, che lasciano trasparire ciò che sta dietro la bella facciata di una società apparentemente educata e regolata, dove però il viso non si mostra più ed è sostituito dalla VISA. L’avere prevale sull’essere e porta ad un convivere gravido di tensioni e di esplosive ingiustizie, che sfoceranno tutte nel grande giudizio. E’ questo un tema centrale dell’arte cristiana, che però ultimamente nessuno si perita di affrontare, tutti preoccupati come siamo di offrire immagini di Madonne piangenti o di Cristi misericordiosi. Eppure la “riserva escatologica”, come la chiama il teologo Johann Baptist Metz, ovvero il giudizio divino che incombe sulla nostra storia, non può essere annullata. Nessun governo, nessun personaggio, nessun popolo può sentirsi il “giusto giudice”, il definitivo arbitro della bontà e della verità. Questo è il compito di Dio e saperlo e vivere di conseguenza significa credere autenticamente in Dio.
L’abbandono al progetto ed alla volontà salvifica di Dio mi sembra efficacemente reso dal trittico S.Giorgio, S.Francesco, Deposizione. S.Giorgio è il combattente che non deve eliminare le passioni (il drago) ma saperle dominare e incanalare per la crescita morale sua e per il bene della società. Cristo è il suo ideale di non-violenza, perché gli insegna a combattere non i nemici che la nostra mente crea, ma il nemico che si annida nel nostro intimo e che è un Io ingombrante ed egotico. S.Francesco nella sua nudità, lasciando i beni terreni ed abbracciando la Croce, ci mostra la ricchezza che nasce dalla sobrietà, dal riuscire a sfuggire al demone del consumismo, per compiere quella scelta radicale per Cristo che fonda in maniera nuova la vita dell’uomo e la sua dignità. La Deposizione infine sembra racchiudere il ciclo pittorico che Orlando ci ha offerto. L’abbandono rilassato del Cristo, la sua mano che ha vinto il peccato (il verme tratto dalla mela), il quadrato magico (Sator arepo) che allude al “tutto è compiuto” ed a quanto gli apostoli riconoscono a Gesù (“ha fatto bene ogni cosa!” [Marco 7,37]): tutti questi elementi richiamano il Mistero dell’uomo-Dio, l’enigma della bellezza del piano del Creatore, che non fugge nemmeno davanti alla morte. E difatti nel suo discorso di Pentecoste Pietro dirà alle folle di Gesù : “questi non fu abbandonato negli inferi, né la sua carne vide la corruzione”.
La carne non è destinata alla corruzione! Forse è proprio questo che Orlando Gasperini vuol dirci con queste sue opere. Il Signore non segue il nostro destino di (apparente) corruzione, ma ci precede ed introduce nella dimensione di una carnalità (cioè di una totalità dell’essere-persona) bella e senza smagliature. Si tratta allora in definitiva di una mostra di immagini a volte inquietanti ma densa di una speranza che invita a guardare attraverso il Crocifisso (uomo o Figlio che egli sia) per vedere anche e soprattutto il Risorto che “attirerà tutti a sé”. “Quo vadis Domine?” era la domanda iniziale. Ora Gesù è il Signore entrato in quella definitività che sarà anche il nostro shabbat, il sabato senza fine del nostro riposo, del nostro abbandono totale in quel Dio che sarà “tutto in tutti”, nel quale “i giusti risplenderanno come il sole” (Matteo 13,43).