Maurizio Scudiero
NELLA FISSITA' D'UN ISTANTE... AMMIRO IL TEMPIO PERFETTO
2005
Palazzo Libera, Villa Lagarina
Pittura.
Una pittura dichiaratamente figurativa.
Una pittura corporea, fisica, tattile.
Una pittura allusiva, emblematica, simbolica.
Una pittura corrosiva, graffiante, provocatoria.
Una pittura, inquietante, impietosa ma anche ironica.
Una pittura “barocca”, e “inquisitiva”.
Pittura di Orlando Gasperini.
Già, ma che senso ha fare ancora pittura nell’epoca telematica, dell’arte virtuale, del Trash, delle performance, delle installazioni?
La velocità del mondo non è più quella di quando la staticità della pittura e del manifesto murale erano le uniche possibilità visive per le masse. Del tempo in cui la “contemplazione visiva” era una “prassi” dell’intelletto, prima ancora dell’occhio.
Poi vennero il cinema, dapprima muto e poi sonoro, e poi la televisione, dapprima in bianco-nero e poi a colori. Ma, all’inizio, il montaggio, la narrazione, portava con sé ancora ritmi letterari del Passato.
Poi venne la Pubblicità, che dai muri delle città si appropriò dei nuovi media.
La Pubblicità si fece Spot, ed il nostro senso della visione mutò radicalmente.
Tutto divenne più veloce, subliminale, “urlato”, ansiogeno: così come la nostra vita.
Le immagini sulla retina iniziarono a sovrapporsi a velocità sempre più crescente, e la “memoria della visione” iniziò a scomparire sempre più velocemente nella geologia stratiforme del “nuovo sempre più nuovo”.
Oggi viviamo in un mondo dove le immagini, in sorta di moderno cannibalismo, divorano sé stesse movendosi lungo un’inesauribile sequenza volta solo “solo” verso il futuro.
In questo mondo, dove tutto sembra più “comunicativo”, perché immediato, e dove le persone sono divenute isole fluttuanti nel mare dell’indifferenza, che al massimo si sfiorano ma rimangono sempre distanti, ebbene in questo mondo della passività televisiva e telematica, la Pittura può essere e divenire un’àncora di salvezza, un antidoto all’omologazione visiva, alla lobotomia intellettiva.
Ma vi è una condizione: e cioè che la Pittura si discosti da un’altra pericolosa omologazione, che è quella delle cosiddette avanguardie contemporanee, o presunte tali. Avanguardie che in realtà professano il positivismo di un “pensiero debole”, della democratica massificazione creativa e di un continuo, esasperato, superamento del presente, nel rifiuto di un possibile “ambito meditativo”.
In ciò esse sono lo specchio dell’appiattimento creativo, sottoposto al metodo ed al mercato.
Ciò, però, non accade ad un gruppo sempre più numeroso di artisti che, da qualche anno, in Italia a varie latitudini e senza particolari connessioni tra loro, portano avanti un lavoro che potremmo definire di Pittura colta, e che in una certa misura si pone come reazione alla pittura di maniera della Transavanguardia, che pur aveva rivalutato la “fisicità” della Pittura. E’ quella che Edward Lucie-Smith ha definito come una “retro-avanguardia”, ossia appunto come ciò che viene “dopo” l’avanguardia, ovvero ciò che dopo il furore distruttivo ne tenta una ricostruzione. Una ricostruzione che recupera “i valori” delle esperienze precedenti (come fece il “Ritorno all’ordine” riferendosi a Giotto ed ai “primitivi”) ma che però, oggi, li inserisce nel contesto delle proprie coordinate temporali e sociali.
Non dobbiamo dimenticare che se l’arte prima dell’azzeramento delle avanguardie storiche era una prassi del bello, un’estetica in atto, ma poi è andata via via stemperandosi in una serie di spinte centripete che se, da una parte, hanno messo in competizione la pittura con altri mezzi espressivi, dall’altra hanno dato corpo ad un’area, crescente, di creazioni effimere, non durevoli, tecnicamente minimaliste, alla portata delle masse, divenendo in ciò un vero e proprio evento sociologico, anziché un’estetica tout-court.
In questo contesto le opere di Orlando Gasperini sono pienamente in sintonia con quello che si può definire come un “movimento” di riappropriazione della pittura-pittura, ma al tempo stesso accogliendo anche le istanze sociali delle correnti contemporanee. Dico questo proprio perché Gasperini ha trasposto sul piano visivo di un realismo patinato un universo di simbologie che riferiscono a quelle che sono propriamente le tensioni esistenziali del suo e del nostro tempo.
E’ per questo che l’artista preferisce considerare il suo lavoro in “stanze”, o aree di omogeneità di pensiero (secondo una scansione letteraria rinascimentale), entro le quali egli ordina i suoi lavori, temi cari che da tempo si alternano nella sua produzione: la religiosità, la vita e la morte, gli affetti e le passioni, i temi sociali che angosciano per quanto in fretta sgusciano dalle nostre coscienze. Ma queste stanze sono al tempo stesso “distanze” contemplative, per permettere all’osservatore di cogliere la fredda bellezza del pensiero che le sottende, senza cadere nell’illusione del coinvolgimento emotivo in conseguenza della visione. Distanze anche perché, secondo Gasperini, la labilità della vita terrena, l’eterno peregrinare, porta a rendere distante (nel bene e nel male) ogni cosa, ogni fatto, ogni affetto. Pure le opere prendono le distanze una volta terminate, lasciandosi guardare come un qualcosa fatto da altri e non più dell’artista.
Massimo Libardi in un suo testo puntuale sull’artista citava estensivamente Mario Praz nei cui studi sulle immagini l’arte di Gasperini si ritrova puntualmente, correndo tuttavia il pericolo di un ingabbiamento limitativo, proprio perché l’Uomo di Praz non è l’Uomo Contemporaneo.
Non a caso Ernst Gombrich, un altro illustre studioso che si è occupato di Icones symbolicaes ha parlato di “vari livelli di significato” di un’opera d’arte, cioè di vari livelli sia di estrinsecazione semantica, sia d’interpretazione. Il che sembrerebbe condurci ad una sorta di Babele dei significati.
A sua volta D.E. Hirsch ha affermato (o riaffermato) una vecchia opinione, molto più legata al buon senso che a profonde teorie, secondo la quale un’opera d’arte significa propriamente ciò che l’autore ha voluto che essa significasse. Ma d’altra parte non sempre i meccanismi psico-visivi del simbolo, dell’allegoria, dell’emblema, sono usati dagli artisti consciamente, cioè nella piena conoscenza delle loro implicazioni profonde, proprio perché la loro funzione è di natura archetipa, e va oltre la pura razionalità. In altri termini tali meccanismi agiscono su di un piano applicativo che è di natura fenomenologica, cioè quello sul quale l’Arte fonda il suo stesso essere in nuce.
Questi meccanismi psico-visivi, che implicano un “percorso”, una “successione verso significati ulteriori” si possono ravvisare anche nel lavoro di Gasperini, e sono il presupposto primo del suo lavorare per “cicli”, unitamente ad una Vis narrativa che si sostanzia su uno zoccolo duro di “alta poetica”, allo stesso tempo nulla tacendo delle ipocrisie della società contemporanea.
Ma come tutti i puri di cuore anche Gasperini è stato beneficiato dal sottile vento del fraintendimento. Alcune delle sue opere che mescolavano immagini “forti” ad allusioni religiose sono state interpretate come offensive, irriverenti, blasfeme. Gasperini pone spesso in relazione con il tema della religiosità il corpo umano, volentieri nudo, proprio perché lo ritiene il “tempio perfetto”. Se fossimo nel secolo XVII, cioè in quelle atmosfere che aleggiano sopra al suo lavoro, qualche solerte “difensore della fede” l’avrebbe già messo al rogo, ché, storicamente, il potere, sia esso temporale o spirituale, non ha mai tollerato alterazioni anche minime dello status quo: soprattutto non ha mai brillato per senso ironico.
In realtà, le critiche più accese, in forma letteraria o artistica, al potere, alla gestione delle anime, o a quant’altro, sono sempre state il risultato di un profondo amore, da una parte, e di una duro “j’accuse” alle gestioni “ottuse”, dall’altra.
E quindi, com’è ormai evidente, l’arte di Orlando Gasperini si muove in questo territorio, ancora indistinto, a metà tra lo “spirito” e la “materia”, o, se si vuole citare il titolo di una sua precedente mostra, tra la “carne e cielo”. Di qui l’enfasi sulla fisicità delle sue figurazioni ed anche i forti contrasti semantici, le allusioni solo apparentemente irriverenti, ma di fatto sostanziali.
Gasperini non solo rappresenta idee forti, ma le simboleggia. Vale a dire che Gasperini non “segna” semplicemente una tela, ma la riempie di “significati”.
Purtroppo oggi, sia il linguaggio che la prassi visiva contemporanea favoriscono il delinearsi di una regione ambigua del pensiero e della significazione, posta tra il letterale ed il metaforico, dove si tende a confondere il “segno” con l’oggetto rappresentato, il “nome” con l’oggetto che designa, l’immagine con il suo prototipo. Aby Warburg ha definito questo fenomeno come la “perdita dello spazio autonomo del pensare”, mentre, a sua volta, Hans Sedlmayr ha parlato di “perdita del centro”, allorquando la pluralità dei significati e delle sfumature semantiche, tende a “confondere” il simbolismo nell’arte come un problema estetico, anziché ontologico.
Al contrario nelle opere di Orlando Gasperini vi è una chiarezza, ed una certezza, di fondo: che l’arte non può prescindere dal porre al centro del suo lavoro il travaglio che deriva dalle implicazioni di una disamina dei rapporti tra cielo e terra, tra spirito e materia, tra verità illusorie e verità sostanziali. Il travaglio che ne esce non è solo, e non può esserlo, virtuale, mentale, speculativo, ma profondamente fisico, cioè di una fisicità umana, fatta sia di pensiero che di passioni, di certezze ma anche di dubbi, di violenza ma anche di amore.
E’ un travaglio che non fa tendenza, moda, trend.
E’ un travaglio che solo chi è fuori dal coro può sperimentare e che conduce ad una sorta di “fissità contemplativa”, quella fissità con la quale Gasperini “congela” gli affetti più cari in quell’attimo brevissimo in cui (forse) ti stravolgono il cuore.
Quella “distanza creativa” con la quale stende sulla tela delle immagini di bambini sofferenti su un fondo nero pece, alle quali si sovrappone in trasparenza il drago rosso dell’Apocalisse. Si tratta della sua più recente opera, terminata in questi giorni (e proprio per questo non in catalogo, ma comunque in mostra) con la quale si confronta con l’eccidio di Beslan.
Ma tutto ciò importa realmente a qualcuno, a chi è troppo occupato a scrutarne solo la superficie ?
E l’arte, oggi, è ancora un ambito di “significazione”?
Oppure è solo una superficiale, quanto opulenta, “illusione”?
Una pittura dichiaratamente figurativa.
Una pittura corporea, fisica, tattile.
Una pittura allusiva, emblematica, simbolica.
Una pittura corrosiva, graffiante, provocatoria.
Una pittura, inquietante, impietosa ma anche ironica.
Una pittura “barocca”, e “inquisitiva”.
Pittura di Orlando Gasperini.
Già, ma che senso ha fare ancora pittura nell’epoca telematica, dell’arte virtuale, del Trash, delle performance, delle installazioni?
La velocità del mondo non è più quella di quando la staticità della pittura e del manifesto murale erano le uniche possibilità visive per le masse. Del tempo in cui la “contemplazione visiva” era una “prassi” dell’intelletto, prima ancora dell’occhio.
Poi vennero il cinema, dapprima muto e poi sonoro, e poi la televisione, dapprima in bianco-nero e poi a colori. Ma, all’inizio, il montaggio, la narrazione, portava con sé ancora ritmi letterari del Passato.
Poi venne la Pubblicità, che dai muri delle città si appropriò dei nuovi media.
La Pubblicità si fece Spot, ed il nostro senso della visione mutò radicalmente.
Tutto divenne più veloce, subliminale, “urlato”, ansiogeno: così come la nostra vita.
Le immagini sulla retina iniziarono a sovrapporsi a velocità sempre più crescente, e la “memoria della visione” iniziò a scomparire sempre più velocemente nella geologia stratiforme del “nuovo sempre più nuovo”.
Oggi viviamo in un mondo dove le immagini, in sorta di moderno cannibalismo, divorano sé stesse movendosi lungo un’inesauribile sequenza volta solo “solo” verso il futuro.
In questo mondo, dove tutto sembra più “comunicativo”, perché immediato, e dove le persone sono divenute isole fluttuanti nel mare dell’indifferenza, che al massimo si sfiorano ma rimangono sempre distanti, ebbene in questo mondo della passività televisiva e telematica, la Pittura può essere e divenire un’àncora di salvezza, un antidoto all’omologazione visiva, alla lobotomia intellettiva.
Ma vi è una condizione: e cioè che la Pittura si discosti da un’altra pericolosa omologazione, che è quella delle cosiddette avanguardie contemporanee, o presunte tali. Avanguardie che in realtà professano il positivismo di un “pensiero debole”, della democratica massificazione creativa e di un continuo, esasperato, superamento del presente, nel rifiuto di un possibile “ambito meditativo”.
In ciò esse sono lo specchio dell’appiattimento creativo, sottoposto al metodo ed al mercato.
Ciò, però, non accade ad un gruppo sempre più numeroso di artisti che, da qualche anno, in Italia a varie latitudini e senza particolari connessioni tra loro, portano avanti un lavoro che potremmo definire di Pittura colta, e che in una certa misura si pone come reazione alla pittura di maniera della Transavanguardia, che pur aveva rivalutato la “fisicità” della Pittura. E’ quella che Edward Lucie-Smith ha definito come una “retro-avanguardia”, ossia appunto come ciò che viene “dopo” l’avanguardia, ovvero ciò che dopo il furore distruttivo ne tenta una ricostruzione. Una ricostruzione che recupera “i valori” delle esperienze precedenti (come fece il “Ritorno all’ordine” riferendosi a Giotto ed ai “primitivi”) ma che però, oggi, li inserisce nel contesto delle proprie coordinate temporali e sociali.
Non dobbiamo dimenticare che se l’arte prima dell’azzeramento delle avanguardie storiche era una prassi del bello, un’estetica in atto, ma poi è andata via via stemperandosi in una serie di spinte centripete che se, da una parte, hanno messo in competizione la pittura con altri mezzi espressivi, dall’altra hanno dato corpo ad un’area, crescente, di creazioni effimere, non durevoli, tecnicamente minimaliste, alla portata delle masse, divenendo in ciò un vero e proprio evento sociologico, anziché un’estetica tout-court.
In questo contesto le opere di Orlando Gasperini sono pienamente in sintonia con quello che si può definire come un “movimento” di riappropriazione della pittura-pittura, ma al tempo stesso accogliendo anche le istanze sociali delle correnti contemporanee. Dico questo proprio perché Gasperini ha trasposto sul piano visivo di un realismo patinato un universo di simbologie che riferiscono a quelle che sono propriamente le tensioni esistenziali del suo e del nostro tempo.
E’ per questo che l’artista preferisce considerare il suo lavoro in “stanze”, o aree di omogeneità di pensiero (secondo una scansione letteraria rinascimentale), entro le quali egli ordina i suoi lavori, temi cari che da tempo si alternano nella sua produzione: la religiosità, la vita e la morte, gli affetti e le passioni, i temi sociali che angosciano per quanto in fretta sgusciano dalle nostre coscienze. Ma queste stanze sono al tempo stesso “distanze” contemplative, per permettere all’osservatore di cogliere la fredda bellezza del pensiero che le sottende, senza cadere nell’illusione del coinvolgimento emotivo in conseguenza della visione. Distanze anche perché, secondo Gasperini, la labilità della vita terrena, l’eterno peregrinare, porta a rendere distante (nel bene e nel male) ogni cosa, ogni fatto, ogni affetto. Pure le opere prendono le distanze una volta terminate, lasciandosi guardare come un qualcosa fatto da altri e non più dell’artista.
Massimo Libardi in un suo testo puntuale sull’artista citava estensivamente Mario Praz nei cui studi sulle immagini l’arte di Gasperini si ritrova puntualmente, correndo tuttavia il pericolo di un ingabbiamento limitativo, proprio perché l’Uomo di Praz non è l’Uomo Contemporaneo.
Non a caso Ernst Gombrich, un altro illustre studioso che si è occupato di Icones symbolicaes ha parlato di “vari livelli di significato” di un’opera d’arte, cioè di vari livelli sia di estrinsecazione semantica, sia d’interpretazione. Il che sembrerebbe condurci ad una sorta di Babele dei significati.
A sua volta D.E. Hirsch ha affermato (o riaffermato) una vecchia opinione, molto più legata al buon senso che a profonde teorie, secondo la quale un’opera d’arte significa propriamente ciò che l’autore ha voluto che essa significasse. Ma d’altra parte non sempre i meccanismi psico-visivi del simbolo, dell’allegoria, dell’emblema, sono usati dagli artisti consciamente, cioè nella piena conoscenza delle loro implicazioni profonde, proprio perché la loro funzione è di natura archetipa, e va oltre la pura razionalità. In altri termini tali meccanismi agiscono su di un piano applicativo che è di natura fenomenologica, cioè quello sul quale l’Arte fonda il suo stesso essere in nuce.
Questi meccanismi psico-visivi, che implicano un “percorso”, una “successione verso significati ulteriori” si possono ravvisare anche nel lavoro di Gasperini, e sono il presupposto primo del suo lavorare per “cicli”, unitamente ad una Vis narrativa che si sostanzia su uno zoccolo duro di “alta poetica”, allo stesso tempo nulla tacendo delle ipocrisie della società contemporanea.
Ma come tutti i puri di cuore anche Gasperini è stato beneficiato dal sottile vento del fraintendimento. Alcune delle sue opere che mescolavano immagini “forti” ad allusioni religiose sono state interpretate come offensive, irriverenti, blasfeme. Gasperini pone spesso in relazione con il tema della religiosità il corpo umano, volentieri nudo, proprio perché lo ritiene il “tempio perfetto”. Se fossimo nel secolo XVII, cioè in quelle atmosfere che aleggiano sopra al suo lavoro, qualche solerte “difensore della fede” l’avrebbe già messo al rogo, ché, storicamente, il potere, sia esso temporale o spirituale, non ha mai tollerato alterazioni anche minime dello status quo: soprattutto non ha mai brillato per senso ironico.
In realtà, le critiche più accese, in forma letteraria o artistica, al potere, alla gestione delle anime, o a quant’altro, sono sempre state il risultato di un profondo amore, da una parte, e di una duro “j’accuse” alle gestioni “ottuse”, dall’altra.
E quindi, com’è ormai evidente, l’arte di Orlando Gasperini si muove in questo territorio, ancora indistinto, a metà tra lo “spirito” e la “materia”, o, se si vuole citare il titolo di una sua precedente mostra, tra la “carne e cielo”. Di qui l’enfasi sulla fisicità delle sue figurazioni ed anche i forti contrasti semantici, le allusioni solo apparentemente irriverenti, ma di fatto sostanziali.
Gasperini non solo rappresenta idee forti, ma le simboleggia. Vale a dire che Gasperini non “segna” semplicemente una tela, ma la riempie di “significati”.
Purtroppo oggi, sia il linguaggio che la prassi visiva contemporanea favoriscono il delinearsi di una regione ambigua del pensiero e della significazione, posta tra il letterale ed il metaforico, dove si tende a confondere il “segno” con l’oggetto rappresentato, il “nome” con l’oggetto che designa, l’immagine con il suo prototipo. Aby Warburg ha definito questo fenomeno come la “perdita dello spazio autonomo del pensare”, mentre, a sua volta, Hans Sedlmayr ha parlato di “perdita del centro”, allorquando la pluralità dei significati e delle sfumature semantiche, tende a “confondere” il simbolismo nell’arte come un problema estetico, anziché ontologico.
Al contrario nelle opere di Orlando Gasperini vi è una chiarezza, ed una certezza, di fondo: che l’arte non può prescindere dal porre al centro del suo lavoro il travaglio che deriva dalle implicazioni di una disamina dei rapporti tra cielo e terra, tra spirito e materia, tra verità illusorie e verità sostanziali. Il travaglio che ne esce non è solo, e non può esserlo, virtuale, mentale, speculativo, ma profondamente fisico, cioè di una fisicità umana, fatta sia di pensiero che di passioni, di certezze ma anche di dubbi, di violenza ma anche di amore.
E’ un travaglio che non fa tendenza, moda, trend.
E’ un travaglio che solo chi è fuori dal coro può sperimentare e che conduce ad una sorta di “fissità contemplativa”, quella fissità con la quale Gasperini “congela” gli affetti più cari in quell’attimo brevissimo in cui (forse) ti stravolgono il cuore.
Quella “distanza creativa” con la quale stende sulla tela delle immagini di bambini sofferenti su un fondo nero pece, alle quali si sovrappone in trasparenza il drago rosso dell’Apocalisse. Si tratta della sua più recente opera, terminata in questi giorni (e proprio per questo non in catalogo, ma comunque in mostra) con la quale si confronta con l’eccidio di Beslan.
Ma tutto ciò importa realmente a qualcuno, a chi è troppo occupato a scrutarne solo la superficie ?
E l’arte, oggi, è ancora un ambito di “significazione”?
Oppure è solo una superficiale, quanto opulenta, “illusione”?