Massimo Libardi
LA NUDITA' COME EMBLEMA
1999
Il mio scopo non è di
indagare il ciclo di Orlando Gasperini, Carne e cielo, da un
punto di vista pittorico, ma di indicare alcuni riferimenti
culturali, in modo particolare letterari. Che questo mondo figurativo
abbia nella cultura del Seicento le proprie radici è già stato
notato. Secentiste sono queste atmosfere cupe, tenebrose, che
escludono la luce; la sottolineatura della fragilità e caducità
dell’uomo; l’aspetto teatrale delle composizioni che richiamano
delle scenografie e dei fondali. Secentista è anche la sensualità e
l’intreccio tra questa e la religione, ma ancor più profondamente
secentista è il gusto di legare tra loro immagine e concetto.
Queste immagini vivono e prendono senso dalle loro epigrafi. Il loro intento non è puramente figurativo, ma insegnano “in forma intuitiva una verità morale” (Arthur Schopenauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, vl.I, libro III, § 50). In questo richiamano una forma letteraria, i libri di emblemi, che si è sviluppata nella tarda rinascenza e nel seicento ha avuto il suo acme. L’emblematica è l’erede dell’allegorismo medievale e rappresenta quel “gusto per i concetti”, per le metafore che caratterizza tutto il secolo. “Contenendo ogni immagine poetica un’emblema potenziale, si può comprendere perché emblematico fosse soprattutto quel secolo in cui la tendenza immaginifica giunse al parossismo, il Seicento. Bisognoso com’era di certezze sensuali, il secentista non si fermò all’idoleggiamento puramente fantastico dell’immagine: volle estrinsecarla, proiettarla in un geroglifico, un’emblema, si compiacque di rincalzare la parola con una rappresentazione plastica aggiunta” (Mario Praz, Studi sul concettismo, Sansoni 1947, pg. 7).
Gli emblemi nascono come tentativo umanistico di costruire un equivalente moderno dei geroglifici. Questi infatti erano stati interpretati – sulla base delle notizie fornite da autori antichi quali Plinio, Tacito, Plutarco, Apuleio, ecc. – come una scrittura solamente ideografica. Gli emblemi “son dunque cose (rappresentazioni di oggetti) che contrassegnano un concetto” (Mario Praz, Studi…, pg. 16). La letteratura emblematica è sterminata: a partire dall’Emblematum Liber dell’Alciato (1531) la moda si diffuse rapidamente in tutta Europa. Gli argomenti erano i più vari: si va dagli emblemi desunti dalla zoologia e dalla botanica agli emblemi politici e geografici. Particolare sviluppo ebbero gli emblemi d’amore, la cui destinazione pratica era il dono tra innamorati. L’Atalanta fugiens di Michael Maier (1618) traduce in emblemi le nozioni di alchimia.
Gli emblemi furono utilizzati anche a scopo edificatorio. Infatti, se da un lato costituiscono un modo d’espressione esoterico, quindi il gusto propriamente barocco per l’allegoria complessa e astrusa, per il wit e la “argudeza”, dall’altro, ricorrendo alla rappresentazione di concetti tramite immagini, rendono i concetti comprensibili a tutti. Si tratta di un’opposizione che Praz mette ampiamente in luce, notando tuttavia come questo aspetto didascalico degli emblemi ne abbia fatto uno dei mezzi favoriti della propaganda dei gesuiti. Gli emblemi “sembravano fatti apposta per secondare la tecnica ignaziana dell’applicazione dei sensi, per aiutare la fantasia a rappresentarsi, nei più minuti particolari, circostanze di portata religiosa, l’orrore del peccato e dei tormenti infernali, le delizie della vita devota. Materializzando il soprannaturale, lo rendevano comprensibile a tutti” (Mario Praz, Studi…, pg. 221).
Troviamo dunque nell’emblematica sia il rapporto tra concetto e immagine che quello tra immagine e senso religioso che caratterizza questo ciclo. In particolare nel polittico Vizi e virtù l’elemento allegorico si manifesta compiutamente con le sue “qualità personificate, coi vizi e le virtù fatte carne” (Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi 1971, pg. 203).
Ma il suo insegnamento è molto lontano da quello edificante dell’emblematica gesuitica. Innanzi tutto mancano negli “emblemi” di Orlando quegli elementi di sfondo che caratterizzano gli emblemi barocchi. Non vediamo qui né le ridenti campagne teocritee degli emblemi d’amor profano, né i pergolati o i giardini all’italiana; e nemmeno le nude colline, le monotone mura di monasteri, i pesanti edifici degli emblemi dell’amor sacro. Non vi è la ricchezza di particolari di sfondo che gli emblemi hanno ereditato dai lapidari e dai bestiari medioevali. Il campo è occupato interamente da figure umane, anzi da parti o porzioni di corpi.
Ma non si tratta dei corpi del desiderio. La nudità non sembra preludere alcun disordine amoroso. La figura si erge sola, senza sfondo, semplice e lineare, allo stesso tempo piena ed astratta. Come nella letteratura medioevale e poi nell’emblematica ci troviamo di fronte a rappresentazioni concrete, ad exempla, a raffigurazioni dei vizi e delle virtù. La stessa nudità dei corpi è un elemento che sottolinea ulteriormente questa esemplarità, che rimanda alla condizione umana, l’essere una creatura, l’essere fragile e caduca. Quello che non scatta è il rinvio al trascendente. Le figure di queste tele danno l’impressione di un trascendente vuoto, in attesa esso stesso di redenzione. I simboli del sacro, quasi un’ostentazione ieratica, appaiono come gli elementi di una liturgia insensata.
Come scrive Walter Benjamin, il più acuto geografo del paesaggio culturale del barocco, “le allegorie sono nel, nel regno del pensiero, quello che sono le rovine nel regno delle cose”. Le composizioni barocche accumulano continuamente frammenti “nella persistente aspettazione di un miracolo” (Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi 1971, pg. 188). Anche il corpo umano non costituisce “un’eccezione al comandamento che ordina di smembrare l’organico, per poi leggere nei suoi frammenti il significati vero, fissato, come scritto” (Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi 1971, pg. 235).
Gli ideali epigrammi di questo ciclo non hanno l’origine classica degli epigrammi secentisti. Potrebbe piuttosto illustrare, come ci ricorda l’epigrafe, i testi della vanità dell’essere come L’ecclesiaste o l’opera di Cioran. E proprio Cioran in alcune pagine esemplari per disperazione, fa risalire la creazione non al dio buono, al bene, ma “al demiurgo cattivo”. “Siamo venuti fuori dalle mani di un dio infelice e cattivo, un dio maledetto”. Il bene è dunque un’eccezione: “Se si eccettuano alcuni casi aberranti, l’uomo non è propenso al bene: quale dio ve lo spingerebbe?” (E. M. Cioran, Il demiurgo cattivo, Adelphi, 1986).
Queste immagini rinviano ad un altro topos della letteratura secentista, soprattutto inglese, le anatomie. La scelta del termine è una metafora, piuttosto funeraria, per indicare l’analisi o la disamina di una questione di attualità. Così nel 1578 Lyly intitola un suo romanzo, Euphues: The Anatomy of Wit, titolo che ebbe una fortuna immediata. Nel giro di pochi anni troviamo la Anatomy of Abuses (contro la corruzione dei costumi) e la Anatomy of Absurdity (contro l’eccessivo moralismo), ma soprattutto An Anatomie of the World di John Donne e la monumentale Anatomy of Melancholy di Robert Burton.
Qui la disamina è radicale, impietosa. Come nell’Anatomia del mondo di John Donne “essendo il mondo stesso morto,/ è fatica perduta lo scoprire/le infermità del mondo, poiché non v’è nessuno/ vivo per studiare questa autopsia” (vv. 63-66). Siamo in una “estrema eterna notte”. “Al pari del genere umano, anche l’intera struttura del mondo/ è sconnessa, quasi creata deforme” (vv. 191-192); “è tutto in pezzi, scomparsa è ogni coesione” (v. 213).. La bellezza “che è colore e proporzione”, “è corrotta o dipartita” (vv. 249-250), non esiste più armonia, simmetria, proporzione, ma solo parti eccentriche, “rozza incongruenza” e oscurità.
La pittura di Orlando fa proprio questo sforzo di rendere in immagini concrete e fisiche concetti astratti; di rappresentare visivamente delle astrazioni. I suoi emblemi traducono i concetti morali dal piano astratto in un pensiero carnale. Ma in questo trasferimento perdono armonia e proporzione, anche le virtù sono sottoposte a dissezione in questo mondo oscuro dove inutilmente cerchiamo la scintilla del divino.
Lo sguardo si rivolge a questo paesaggio frammentario e pietrificato attraverso la lente del dolore. Un dolore che se è contenuto e controllato, ma non per questo meno profondo e disperante nella sua fissità e immobilità. Non si riesce proprio a immaginare quale riscatto possa darsi per questo mondo immobile, dove anche i segni di una possibile redenzione - i paramenti, gli altari, le pissidi, gli ostensori, le ostie, … - sono ricondotti allo stesso piano dello delle creature, frammenti essi stessi, allegorie del vuoto e del nulla.
Queste immagini vivono e prendono senso dalle loro epigrafi. Il loro intento non è puramente figurativo, ma insegnano “in forma intuitiva una verità morale” (Arthur Schopenauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, vl.I, libro III, § 50). In questo richiamano una forma letteraria, i libri di emblemi, che si è sviluppata nella tarda rinascenza e nel seicento ha avuto il suo acme. L’emblematica è l’erede dell’allegorismo medievale e rappresenta quel “gusto per i concetti”, per le metafore che caratterizza tutto il secolo. “Contenendo ogni immagine poetica un’emblema potenziale, si può comprendere perché emblematico fosse soprattutto quel secolo in cui la tendenza immaginifica giunse al parossismo, il Seicento. Bisognoso com’era di certezze sensuali, il secentista non si fermò all’idoleggiamento puramente fantastico dell’immagine: volle estrinsecarla, proiettarla in un geroglifico, un’emblema, si compiacque di rincalzare la parola con una rappresentazione plastica aggiunta” (Mario Praz, Studi sul concettismo, Sansoni 1947, pg. 7).
Gli emblemi nascono come tentativo umanistico di costruire un equivalente moderno dei geroglifici. Questi infatti erano stati interpretati – sulla base delle notizie fornite da autori antichi quali Plinio, Tacito, Plutarco, Apuleio, ecc. – come una scrittura solamente ideografica. Gli emblemi “son dunque cose (rappresentazioni di oggetti) che contrassegnano un concetto” (Mario Praz, Studi…, pg. 16). La letteratura emblematica è sterminata: a partire dall’Emblematum Liber dell’Alciato (1531) la moda si diffuse rapidamente in tutta Europa. Gli argomenti erano i più vari: si va dagli emblemi desunti dalla zoologia e dalla botanica agli emblemi politici e geografici. Particolare sviluppo ebbero gli emblemi d’amore, la cui destinazione pratica era il dono tra innamorati. L’Atalanta fugiens di Michael Maier (1618) traduce in emblemi le nozioni di alchimia.
Gli emblemi furono utilizzati anche a scopo edificatorio. Infatti, se da un lato costituiscono un modo d’espressione esoterico, quindi il gusto propriamente barocco per l’allegoria complessa e astrusa, per il wit e la “argudeza”, dall’altro, ricorrendo alla rappresentazione di concetti tramite immagini, rendono i concetti comprensibili a tutti. Si tratta di un’opposizione che Praz mette ampiamente in luce, notando tuttavia come questo aspetto didascalico degli emblemi ne abbia fatto uno dei mezzi favoriti della propaganda dei gesuiti. Gli emblemi “sembravano fatti apposta per secondare la tecnica ignaziana dell’applicazione dei sensi, per aiutare la fantasia a rappresentarsi, nei più minuti particolari, circostanze di portata religiosa, l’orrore del peccato e dei tormenti infernali, le delizie della vita devota. Materializzando il soprannaturale, lo rendevano comprensibile a tutti” (Mario Praz, Studi…, pg. 221).
Troviamo dunque nell’emblematica sia il rapporto tra concetto e immagine che quello tra immagine e senso religioso che caratterizza questo ciclo. In particolare nel polittico Vizi e virtù l’elemento allegorico si manifesta compiutamente con le sue “qualità personificate, coi vizi e le virtù fatte carne” (Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi 1971, pg. 203).
Ma il suo insegnamento è molto lontano da quello edificante dell’emblematica gesuitica. Innanzi tutto mancano negli “emblemi” di Orlando quegli elementi di sfondo che caratterizzano gli emblemi barocchi. Non vediamo qui né le ridenti campagne teocritee degli emblemi d’amor profano, né i pergolati o i giardini all’italiana; e nemmeno le nude colline, le monotone mura di monasteri, i pesanti edifici degli emblemi dell’amor sacro. Non vi è la ricchezza di particolari di sfondo che gli emblemi hanno ereditato dai lapidari e dai bestiari medioevali. Il campo è occupato interamente da figure umane, anzi da parti o porzioni di corpi.
Ma non si tratta dei corpi del desiderio. La nudità non sembra preludere alcun disordine amoroso. La figura si erge sola, senza sfondo, semplice e lineare, allo stesso tempo piena ed astratta. Come nella letteratura medioevale e poi nell’emblematica ci troviamo di fronte a rappresentazioni concrete, ad exempla, a raffigurazioni dei vizi e delle virtù. La stessa nudità dei corpi è un elemento che sottolinea ulteriormente questa esemplarità, che rimanda alla condizione umana, l’essere una creatura, l’essere fragile e caduca. Quello che non scatta è il rinvio al trascendente. Le figure di queste tele danno l’impressione di un trascendente vuoto, in attesa esso stesso di redenzione. I simboli del sacro, quasi un’ostentazione ieratica, appaiono come gli elementi di una liturgia insensata.
Come scrive Walter Benjamin, il più acuto geografo del paesaggio culturale del barocco, “le allegorie sono nel, nel regno del pensiero, quello che sono le rovine nel regno delle cose”. Le composizioni barocche accumulano continuamente frammenti “nella persistente aspettazione di un miracolo” (Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi 1971, pg. 188). Anche il corpo umano non costituisce “un’eccezione al comandamento che ordina di smembrare l’organico, per poi leggere nei suoi frammenti il significati vero, fissato, come scritto” (Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi 1971, pg. 235).
Gli ideali epigrammi di questo ciclo non hanno l’origine classica degli epigrammi secentisti. Potrebbe piuttosto illustrare, come ci ricorda l’epigrafe, i testi della vanità dell’essere come L’ecclesiaste o l’opera di Cioran. E proprio Cioran in alcune pagine esemplari per disperazione, fa risalire la creazione non al dio buono, al bene, ma “al demiurgo cattivo”. “Siamo venuti fuori dalle mani di un dio infelice e cattivo, un dio maledetto”. Il bene è dunque un’eccezione: “Se si eccettuano alcuni casi aberranti, l’uomo non è propenso al bene: quale dio ve lo spingerebbe?” (E. M. Cioran, Il demiurgo cattivo, Adelphi, 1986).
Queste immagini rinviano ad un altro topos della letteratura secentista, soprattutto inglese, le anatomie. La scelta del termine è una metafora, piuttosto funeraria, per indicare l’analisi o la disamina di una questione di attualità. Così nel 1578 Lyly intitola un suo romanzo, Euphues: The Anatomy of Wit, titolo che ebbe una fortuna immediata. Nel giro di pochi anni troviamo la Anatomy of Abuses (contro la corruzione dei costumi) e la Anatomy of Absurdity (contro l’eccessivo moralismo), ma soprattutto An Anatomie of the World di John Donne e la monumentale Anatomy of Melancholy di Robert Burton.
Qui la disamina è radicale, impietosa. Come nell’Anatomia del mondo di John Donne “essendo il mondo stesso morto,/ è fatica perduta lo scoprire/le infermità del mondo, poiché non v’è nessuno/ vivo per studiare questa autopsia” (vv. 63-66). Siamo in una “estrema eterna notte”. “Al pari del genere umano, anche l’intera struttura del mondo/ è sconnessa, quasi creata deforme” (vv. 191-192); “è tutto in pezzi, scomparsa è ogni coesione” (v. 213).. La bellezza “che è colore e proporzione”, “è corrotta o dipartita” (vv. 249-250), non esiste più armonia, simmetria, proporzione, ma solo parti eccentriche, “rozza incongruenza” e oscurità.
La pittura di Orlando fa proprio questo sforzo di rendere in immagini concrete e fisiche concetti astratti; di rappresentare visivamente delle astrazioni. I suoi emblemi traducono i concetti morali dal piano astratto in un pensiero carnale. Ma in questo trasferimento perdono armonia e proporzione, anche le virtù sono sottoposte a dissezione in questo mondo oscuro dove inutilmente cerchiamo la scintilla del divino.
Lo sguardo si rivolge a questo paesaggio frammentario e pietrificato attraverso la lente del dolore. Un dolore che se è contenuto e controllato, ma non per questo meno profondo e disperante nella sua fissità e immobilità. Non si riesce proprio a immaginare quale riscatto possa darsi per questo mondo immobile, dove anche i segni di una possibile redenzione - i paramenti, gli altari, le pissidi, gli ostensori, le ostie, … - sono ricondotti allo stesso piano dello delle creature, frammenti essi stessi, allegorie del vuoto e del nulla.